Signor ministro, non sono un archeologo polveroso

Signor ministro, non sono un archeologo polveroso

Su Repubblica di oggi, 5 febbraio, il ministro Dario Franceschini a una domanda sulla marcia organizzata dall’Associazione Bianchi Bandinelli sull’Appia Antica per il 13 febbraio, risponde così: “Bianchi Bandinelli era un riformatore, non un conservatore. L’Appia Antica ci sta a cuore. Il direttore sarà scelto con un bando internazionale: avrà autonomia fiscale, gestionale… Non capisco dove sia l’indebolimento”. A questo proposito sembra opportuno riprodurre qui una lettera di Bianchi Bandinelli del 1960 accompagnata da un’altra lettera, scritta dal presidente dell’Associazione Bianchi Bandinelli, Vezio De Lucia, al ministro Franceschini.

Da sinistra: rappresentante della Casa Mazzocco, Aldo Calò, Giuseppe Capogrossi, Felice Casorati, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Giulio Carlo Argan, Enrico Galassi, Renato Guttuso.

Da sinistra: rappresentante della Casa Mazzocco,
Aldo Calò, Giuseppe Capogrossi, Felice Casorati,
Ranuccio Bianchi Bandinelli, Giulio Carlo Argan,
Enrico Galassi, Renato Guttuso.



On. Senatore, Prof. Dr. Giuseppe Medici
Ministro della Pubblica Istruzione
Roma, 28 maggio 1960
Oggetto: Consiglio Superiore
Antichità e Belle Arti
Dimissioni
Onorevole Signor Ministro,
ho atteso, prima, che la crisi di governo fosse, almeno formalmente, chiusa e poi che la I sezione del Consiglio, alla quale appartengo, si fosse di nuovo riunita per informare i Colleghi della mia decisione e per indirizzarLe la presente lettera, che già da tempo avevo in animo di scrivere e con la quale ho l’onore di presentarLe le dimissioni da componente il Consiglio Superiore di Antichità e Belle Arti.
 
Potrei motivare, Signor Ministro, questa decisione con il sovraccarico di lavoro o con ragioni di salute senza alterare il vero e il mio scritto potrebbe aver termine a questo punto rispettando una opportuna brevità. Ma commetterei un atto di insincerità, che mi sarebbe del tutto inconsueto. Le mie dimissioni sono dovute, in effetti, al disgusto per il modo come il Consiglio Superiore, che nel linguaggio burocratico è tuttavia designato come “Alto Consesso”, viene fatto funzionare, con discredito per questo organo; e alla volontà di non condividere più oltre, anche in parte minima, la responsabilità che l’Amministrazione delle Antichità e Belle Arti è costretta ad assumersi, e si assume, nella progressiva distruzione delle caratteristiche della civiltà artistica italiana.
 
Ho trovato nell’esperienza conferme anche troppo esplicite, infatti, alle ragioni che mi avevano reso esitante nell’accettare la nomina al Consiglio Superiore, quando ne ebbi la designazione, del tutto inattesa e non cercata, e tali esitazioni esposi all’on. Aldo Moro, che in quel tempo reggeva il Dicastero della P.I., con lettera dell’11 febbraio 1958.
Se, infatti, si fosse voluto porre realmente un argine alla distruzione, ampiamente documentata, delle bellezze d’Italia, si sarebbe sentito il bisogno di rafforzare il Consiglio Superiore, rivedendone la legge istitutiva e il regolamento. Ma anche con l’attuale legislazione si potrebbe ottenere una salvaguardia molto più efficace, ove da parte delle Direzione Generale e del Gabinetto vi fosse la effettiva e costante volontà di opporsi agli attentati che da tante parti vengono portati alle caratteristiche delle nostre città e del paesaggio italiano.
 
Chi Le scrive, Signor Ministro, non è, come Ella potrebbe credere (poiché non ho l’onore di essere conosciuto da Lei) un archeologo “polveroso”, ma uno studioso proteso più verso il futuro che verso il passato e che ha qualche esperienza a proposito di queste faccende, avendo retto per quasi tre anni la Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti nell’immediato dopoguerra. Conosco perciò le pressioni che da parte di tutte le autorità della classe dirigente italiana (gruppi finanziari, autorità ecclesiastiche, prefetti, sindaci e parlamentari) vengono esercitate sui locali uffici e sul Ministero, sempre in un solo senso: perché cioè, si deroghi alle leggi predisposte per la tutela artistica, storica e panoramica: so che i funzionari regionali delle nostre Soprintendenze conducono con tenacia e coscienza una lotta impari contro queste pressioni e che la Direzione Generale potrebbe trovare il più valido appoggio nel Consiglio Superiore.
 
Ma il costume oggi invalso ha troppe volte mostrato, in casi importanti, che il Consiglio Superiore non è tenuto quale organo attraverso il quale alcuni competenti specialisti sono chiamati ad affiancare e orientare le direttive ministeriali, ma piuttosto quale strumento per avallare e coprire decisioni già prese, spesso provocate da pressioni che possono dirsi politiche solo nel senso più deteriore del termine, cioè del tutto particolaristico e clientelistico. L’esperienza, sempre più aggravata negli ultimi dieci anni, ha mostrato che nessuna seria garanzia è data ai componenti del Consiglio Superiore di trovare nell’autorità ministeriale la massima tutelatrice e interprete della legge nell’interesse comune: infatti l’appoggio del Consiglio Superiore non viene cercato nella misura che sarebbe possibile e sovente vengono demandate all’”Alto Consesso” questioni spicciole e affatto secondarie, mentre non vengono ad esso sottoposte, con pretesti burocratici e protocollari, questioni gravissime, anche quando il semplice portarle a conoscenza del Consiglio dovrebbe essere normale prassi e anche quando le sezioni del Consiglio abbiano fatto esplicita richiesta di essere informate. Oppure si pone il Consiglio Superiore dinanzi a decisioni già prese e a impegni già assunti nello stesso momento nel quale al Consiglio viene richiesto di pronunziarsi in merito. I casi del Villaggio CEP di Sorgane e del cosiddetto parco della via Appia sono, di tale prassi, solo gli esempi più clamorosi; ma la prassi si estende anche a casi innocui e modesti.
 
Tutto ciò pone in evidenza che da parte degli uffici ministeriali si è timorosi maggiormente delle pressioni esterne che non della propria responsabilità verso il patrimonio artistico e culturale italiano o verso l’applicazione e il rispetto delle leggi di tutela e che forte è nelle istanze ministeriali la repugnanza a una prassi effettivamente democratica.
 
Non ho nessuna illusione, Signor Ministro, che queste mie dimissioni posano avere qualche efficace risonanza. La Direzione Generale, se da Lei verrà interpellata, presenterà senza dubbio un appunto dal quale risulterà che tutto va bene nel migliore dei modi possibile, perché si ritiene buona norma che gli uffici non abbiano mai torto. Ma tutti colori che hanno sensibilità storica e artistica e senso della decenza e che si preoccupano anche dell’importanza che nel nostro paese assume l’elemento turistico, sanno, in Italia e ormai purtroppo anche fuori d’Italia, che l’Italia si sta distruggendo giorno per giorno, e che tale distruzione solo in casi isolatissimi è inevitabile conseguenza dei mutamenti tecnici, economici e strutturali della civiltà moderna: nella maggior parte dei casi è conseguenza del prevalere degli interessi della speculazione privata e della grossolanità culturale della attuale classe dirigente italiana.
I due anni di appartenenza al Consiglio mi hanno convinto della assoluta inefficacia della mia appartenenza a tale organismo e quindi ne traggo le logiche e oneste conseguenze.
Voglia accogliere, On. Signor Ministro, l’espressione del mio doveroso ossequio.
(Prof. Dr. Ranuccio Bianchi Bandinelli)
 
 
Questa lettera di dimissioni indirizzata al ministro Medici, titolare della Pubblica Istruzione nel governo Tambroni, fu ripubblicata “in luogo di prefazione” al volumetto AA., BB. AA e B.C. L’Italia storica e artistica allo sbaraglio (De Donato, Bari 1974). È una rilettura attualissima, anche per il commento che l’accompagna all’inizio del libro: “La lettera che è stata posta in luogo di prefazione, con la quale motivavo le mie dimissioni dal Consiglio superiore delle Antichità e Belle Arti […] l’ho ritrovata tra le mie carte in una copia ciclostilata, segno che a suo tempo (1960) fu diffusa con una certa larghezza a coloro che potevano avere qualche interesse a leggerla, oltre al destinatario. Ma non ebbe nessun effetto. Il Ministro, naturalmente, non rispose e nessun altro si dimise, perché anche l’ombra del potere scalda le viscere dei professori. Eppure era una bella lettera, che (mi sembra ancor oggi) metteva il dito sulla piaga. La piaga è, infatti, che ai politici stanno più a cuore le clientele politiche che non il patrimonio artistico e culturale della nazione e che la burocrazia, in tradizionale alleanza con i notabili locali, vede queste cose unicamente da un punto di vista giuridico-amministrativo. […] Un problema di fondo per la tutela dei valori storici e culturali era di dare maggiore autonomia ai “tecnici”, cioè ai funzionari competenti di storia, di archeologia, di storia dell’arte. […] Una riforma che andava (cautamente) in questo senso attribuendo maggiori poteri decisionali agli ispettori tecnici centrali e ai soprintendenti, proposta al mio arrivo alla Direzione Generale nell’aprile del 1945, non fu presa in considerazione (ma fu poi realizzata in Francia nello stesso anno)”. Fu a seguito di questo rifiuto che Bianchi Bandinelli lasciò nell’agosto del 1947 la Direzione Generale alle Antichità e Belle Arti, tornando all’insegnamento universitario: non a Roma, dove non volle accettare una cattedra istituita ad personam, ma a Cagliari.
 
Caro ministro Franceschini, venga con noi sull’Appia Antica
Signor ministro,
nella sua intervista a la Repubblica lei definisce riformatore e non conservatore l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli. Francamente non so quale qualifica sia più giusta. Bianchi Bandinelli era certamente una persona che aveva a cuore le bellezze d’Italia e cercava, scrive nella lettera che qui pubblichiamo, “nell’autorità ministeriale la massima tutelatrice e interprete della legge nell’interesse comune”. È questo che conta non che fosse conservatore o riformatore. Come lei sa, Giulio Carlo Argan ha fondato la nostra associazione, intestandola a Bianchi Bandinelli, perché si ispirasse al suo modo di pensare e ai suoi comportamenti, alla sua attitudine a denunciare e al tempo stesso a proporre soluzioni positive. Noi cerchiamo di essere coerenti con quell’impostazione.
È tutto.
 
Ma colgo l’occasione, signor ministro, per invitarla alla passeggiata che faremo sabato 13 febbraio sull’Appia Antica, per ricordare Antonio Cederna, secondo me conservatore e rivoluzionario, grazie al quale, alle sue spietate denunce e alla sua determinazione, la regina viarum si è salvata e rappresenta oggi, nonostante la sua storia tormentata, uno degli esempi migliori di gestione di un bene archeologico. Saremmo davvero contenti, signor ministro, se accogliesse quest’invito.
Si abbia i più rispettosi e cordiali saluti,
                                                                                                         Vezio De Lucia
 

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